03.06.2017
Trump sta diventando simpatico.
Autore: Gabriele Adinolfi
Non mi riferisco alle coliche renali della crème progressista che ci fece godere a novembre ma che già ha stufato. E non mi riferisco neppure ai deliri dei “sovranisti” che plaudono a Parruccaman perché starebbe “sfidando il mondialismo” (emoticon).
Mi riferisco a quello che il nostro apprendista stregone sta combinando nel segno di “America First”, ovvero mettere gli Usa in una grande difficoltà gestionale e strategica, come mai era accaduto in passato, creando una serie di reazioni che, se continuano, si riveleranno interessantissime.
Il primo pensiero va allo strappo sul coordinamento climatico mondiale, sul quale, sia chiaro, ha più ragione lui degli altri, anche se in ambo i casi sono in gioco interessi più che concezioni del mondo. Il fatto di avere indotto la Germania a sostenere che non ci si possa più fidare degli Usa e che si debba fare sul serio per realizzare l’emancipazione europea è qualcosa che attendevamo da decenni. Di chi ha meno torto sul clima, francamente m’interessa come il campionato di calcio macedone, quello che ne potrà seguire in termini di emancipazione e potenza europea invece m’interessa più del Mondiale del 2006.
Avremmo torto a limitarci a parlare di questo strappo. Trump, apprendista stregone, sta scoprendo ogni giorno che passa che l’impianto mentale psicorigido e muscolare che si accompagna alle critiche reazionarie basate sul buon senso è incapacitante perché non coglie gran parte della materia viva. La reazione funge da rettifica solo quando la gestiscono dei rivoluzionari, come ha insegnato la storia, altrimenti s’avvita nell’inconcludenza e produce effetti contrari.
NAFTA. La retorica elettorale contro l’accordo di liberoscambio nordamericano si è immediatamente arenata: una soluzione di compromesso è stata affidata a Robert Lighthizer che, ironia della sorte, dice di volersi ispirare al TPP, il Trattato per il Pacifico liquidato da Trump (mentre il TTIP con l’Europa era stato bocciato proprio nella UE).
Sul fronte del Pacifico si prova a trasformare il TPP in una serie di accordi bilaterali che si dimostrano impossibili tenuto conto dell’interrelazione tra le aree economiche.
Il solo risultato raggiunto è l’opposto di quello voluto: si è fatto della Cina, il cui Pil ha superato per la prima volta quello statunitense, l’arbitro delle relazioni interpacifiche.
Gli europei ne approfittano inserendosi. La Germania ha recentemente rilanciato una partnership sinotedesca, noi abbiamo siglato un accordo strategico con il Giappone il quale a sua volta apre alla Cina. Non stiamo qui a definire quanto ci sia di positivo e di negativo negli accordi con la Cina, ma sottolineamo due punti essenziali. Il primo è che la mutazione prodotta da Trump si manifesta nel grado di valore effettivo delle potenze ed è tutto profondamente negativo per gli americani. Il secondo è che questo smuove le acque e apre parecchie connessioni potenziali con il Pacifico rendendo ancor più attuale e concreto l’operato di Polaris, EurHope, Lambda che non ha atteso la pioggia per bere. Le relazioni politiche e commerciali con Cile e Perù sono state avviate e in una precisa ottica geopolitica.
Con il Sud America, la linea di Trump, del tutto opposta a quella del suo mentore Kissinger, sta spingendo i partner iberoamericani a una serie di accordi subcontinentali e intercontinentali che scavalcano gli interessi nordamericani.
Paradossale è poi la questione del Muro anti-messicano. Proprio il Messico, con la sua “pazienza diplomatica”ne sta venendo fuori con una cooperazione doppia e saparata con gli Usa e con il Brasile, la quale ultima è però ai danni dell’economia yankee. Frattanto gli interessi di Texas e California, che insieme rappresentano la seconda economia degli Usa e la quarta del mondo, minacciati dalle scelte di Trump hanno prodotto strappi notevoli, tra i quali l’ultimo dell’altro ieri, con la California che ha deciso che si rappresenterà da sola in vari consessi internazionali se la Casa Bianca insiste nelle attuali scelte.
Resta il Vicino Oriente dove, contrariamente a quanto aveva annunciato in campagna elettorale, Trump si è impegnato militarmente per proseguire l’azione purtroppo vincente di Obama (chi dice il contrario non ragiona in ottica americana) e la stessa relazione ambivalente ma goffa con la Russia sta spingendo, fortunatamente, il Cremlino a cercare altre strade rispetto a quella Yalta spuria a cui l’intelligenza strategica di Obama l’aveva invitato. Resta il nodo ucraìno del quale, a parte questioni di faccia, a Mosca non interessa granché, ma una ricomposizione almeno parziale di quello che fu tra il 2001 e il 2008, ovvero di un’intesa Parigi-Berlino-Mosca, oggi diviene nuovamente possibile. Il fatto è che la Russia con questi cambi di rotta ha perso di credibilità e se si orienterà nuovamente nella giusta direzione sarà costretta a tenere atteggiamenti un po’ meno bulli.
Se Trump continua a spingere la Cina verso la Germania al Cremlino non resteranno molte alternative.
Certo, Trump potrà infine imparare la lezione, stracciare quasi tutti i suoi programmi elettorali e ripartire dalla strategia di Obama, allora tutto questo sarà parzialmente neutralizzato. Oppure potrà essere indotto a scatenare una guerra mondiale. O verrà eliminato con un empeachment.
La lezione da trarre in ogni caso è che la retorica, specie quella muscolare di cui si nutrono i “populismi” lascia il tempo che trova: quando si pensa di mettere mano alle cose per cambiarle per partito preso, qualunque esso sia, si ottiene esattamente l’effetto contrario. “America first” era un dato di fatto fino a quando è subentrato Trump con il suo slogan e le ha fatto perdere terreno ovunque.
Molti dei suoi proponimenti erano lodevoli e sensati ma non c’è modo per realizzarli senza una cultura rivoluzionaria, senza competenza e senza un’azione a rete e in profondità.
In mancanza di tutto questo, che dobbiamo acquisire in fretta, godiamoci le difficoltà in cui gli Usa si stanno ficcando da soli.